Cosa significa “valore legale del titolo di studio”? Cosa cambierebbe se fosse abolito?
Cari amici di Parlarealmicrofono.it,
oggi parliamo di un tema che di tanto in tanto torna alla ribalta nel dibattito politico italiano, ma che in questo periodo sembra poter giungere a un primo passaggio importante: si tratta della discussione sull’abolizione del valore legale dei titoli di studio. Da alcuni giorni, infatti, è possibile partecipare alla consultazione pubblica indetta dal Governo sul tema: tutti i cittadini possono dire la loro sulla possibilità di abolire il valore legale dei titoli di studio compilando un questionario online sul sito del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (Miur). Ma cosa significa, concretamente, l’abolizione del valore legale? Quali sarebbero le conseguenze per i laureati, per i futuri dottori e per le università?
Il valore legale dei titoli di studio nell’ordinamento italiano
Come si legge nel dossier elaborato nel 2011 dal Servizio studi del Senato della Repubblica, con l’espressione “valore legale del titolo di studio” si indica «l’insieme degli effetti giuridici che la legge ricollega ad un determinato titolo scolastico o accademico, rilasciato da uno degli istituti scolastici o universitari, statali o non, autorizzati a rilasciare titoli di studio». Questa formulazione sta a significare che il concetto di “valore legale” non si basa su uno specifico dettato normativo, ma che va piuttosto desunto «dal complesso di disposizioni che ricollegano un qualche effetto al conseguimento di un certo titolo scolastico o accademico». In quest’ottica, gli ambiti in cui si ripercuotono gli effetti che derivano dal conseguimento di un titolo sono fondamentalmente tre: l’accesso alle professioni, il pubblico impiego e gli ordinamenti scolastici e universitari.
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Gli effetti prodotti dal “valore legale”
Per quanto riguarda la prima questione, è sufficiente pensare ai requisiti per esercitare una professione: l’accesso all’albo professionale avviene normalmente con il superamento di un esame di Stato, per sostenere il quale è necessario aver conseguito un certo titolo. L’accesso al pubblico impiego, poi, avviene – tranne alcune eccezioni di legge – per concorso: e per accedere alle varie carriere all’interno della P.A. è necessario aver conseguito i titoli di studio previsti dal D.P.R. 10 gennaio 1957, n°3. Infine, gli stessi ordinamenti accademici subiscono gli effetti del valore legale, poiché è stabilito che le università adottino curricula didattici coerenti con il valore legale dei titoli di studio rilasciati. Un’altra diretta conseguenza del valore legale è che una laurea in una determinata materia ha sempre il medesimo valore indipendentemente dall’ateneo nel quale viene conseguita. Ai fini della partecipazione ad un concorso pubblico, ad esempio, non rileva l’aver raggiunto il traguardo della laurea in un’università prestigiosa e dal riconosciuto valore piuttosto che in un ateneo di livello inferiore.
Le conseguenze di un’eventuale abolizione
L’abolizione del valore legale della laurea comporterebbe alcune conseguenze, che si possono riassumere così: ai fini dell’accesso all’esame di Stato per esercitare una certa professione potrebbe non essere più rilevante il tipo di laurea conseguito; allo stesso modo, l’accesso ai concorsi pubblici potrebbe diventare possibile per tutti i possessori di una laurea, non rilevando la materia in cui è stata conseguita. Infine, il venir meno dell’equivalenza fra i titoli rilasciati porterebbe a considerare in maniera diversa l’aver conseguito il titolo in una certa università piuttosto che in un’altra, sulla base di una “classifica” delle università. È quanto avviene, ad esempio, nel sistema anglosassone: laurearsi in atenei prestigiosi come Harvard, Yale o Cambridge è un fattore importante ai fini dell’inserimento nel mondo del lavoro.
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Il dibattito fra favorevoli e contrari
Di fronte a un tema così importante, non sono poche le voci che si sono levate, sia a favore sia contro la proposta. Chi sostiene l’abolizione del valore legale ritiene che in questo modo si svilupperebbe un meccanismo virtuoso di concorrenza fra le università, che sarebbero incentivate a raggiungere livelli di eccellenza e di conseguenza a essere preferite dagli studenti. Dal punto di vista delle professioni, poi, il venir meno della necessità di conseguire un determinato titolo potrebbe rappresentare anche un primo passo verso la revisione del sistema degli ordini professionali, da molti ritenuti una zavorra corporativa che funge da limite allo sviluppo del mercato del lavoro. D’altra parte, non mancano gli argomenti che vengono sollevati contro il cambiamento normativo: innanzitutto, si lamenta il fatto che verrebbero a delinearsi università di serie A e di serie B, con conseguente aumento delle rette da parte delle prime e, quindi, una certa limitazione del diritto allo studio. In secondo luogo, si ritiene che alcune professioni richiedano inderogabilmente competenze che vengono acquisite soltanto conseguendo determinate lauree; c’è da dire, su questo punto, che le varie proposte sembrano propense a non modificare le norme relative a quelle professioni che richiedono competenze specifiche, acquisite solo con lauree quali medicina, ingegneria, architettura. Il dibattito è comunque aperto, e tutti possono dire la loro rispondendo entro il 24 aprile prossimo al referendum presente sul sito del Miur.
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