Il linguaggio e la leadership di Giuseppe Conte
Gli ultimi sondaggi gli danno il 63% di gradimento, eppure la sua coalizione, se si votasse oggi, supererebbe di poco il 40%. La sua comunicazione a tratti è inefficace, fa uso frequente di metafore di difficile decodifica (tra “cabine di regia”, “favore delle tenebre” e “stati generali”), e usa molte negazioni, evocando scenari opposti a quelli che vorrebbe comunicare (“non aumenteremo le tasse”, “non mi sento accerchiato”, “non sono alla ricerca di altre maggioranze”).
Insomma, Giuseppe Conte è l’esempio che il linguaggio conta, ma fino a un certo punto. È la dimostrazione che comunicare attraverso le parole è solo una parte della dinamica del consenso.
Il resto lo fanno capacità percepita di leadership, autorevolezza, empatia, carisma, vicinanza al pubblico e valutazione del contesto (“mi piaci così così, ma in questo momento non percepisco alternative migliori di te”).
Quando pensiamo alle parole, è importante ricordarci che sì, hanno un ruolo, ma non sono tutto. E che comunque la comunicazione si fa in due: la fa chi invia il messaggio, e chi lo riceve. E se chi riceve il messaggio non è cooperativo, non c’è tecnica che tenga.
Vale anche l’opposto: se chi riceve le nostre parole è cooperativo, possiamo comunicare in maniera “imperfetta”, ma funzionerà comunque.
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