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Perché i professionisti della psicologia non possono definirsi “esperti”

Perché i professionisti della psicologia non possono definirsi “esperti”

Di tutte le definizioni che mi danno in qualità di Dottore in tecniche psicologiche, quella di “esperto di Public Speaking e comunicazione” è quella che amo di meno.

Perché pensiamoci bene: chiunque può definirsi esperto in un determinato settore. E questo a prescindere dalla propria formazione e dal proprio percorso professionale.
 Se ci facciamo caso, sui social siamo circondati da “esperti”. Quante volte leggiamo biografie che contengono la formula “esperto in” qualcosa?

Già, ma chi attribuisce queste “patenti” ai professionisti, in modo uniforme e univoco per tutti?

Perché gli psicologi non possono definirsi esperti?

Su questo tema, il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi, già nel 2007 nel cosiddetto “Atto di indirizzo sulla pubblicità informativa delle attività professionali degli iscritti alla sezione A e B dell’Albo”, segnalava che agli iscritti all’Ordine degli Psicologi “non è consentito utilizzare il termine “esperto”, in quanto fuorviante per la trasparenza del messaggio”.

Anche la Commissione Deontologia dell’Ordine degli Psicologi della Regione Lombardia, il 4/2/2016, nella risposta a un quesito relativo a questo aspetto, ha chiarito come il professionista della psicologia deve esibire le proprie qualifiche:

“La pubblicità informativa può indicare i titoli di studio, tra i quali <<titoli di formazione universitari post – laurea o post- laurea quinquennale o specialistica o magistrale come i corsi di perfezionamento scientifico o di altra formazione permanente o ricorrente come : “Master universitario di primo livello in…” “Master universitario di II livello in …” ai sensi della L. n. 34/1990, del DM 509/1999 e del DM 270/2004>> (art. 4).”

Perché è una precisazione importante per gli utenti

Credo queste puntualizzazioni siano importantissime: le competenze del professionista vanno documentate con gli studi, le qualifiche e le esperienze professionali, che rappresentano parametri misurabili.

Sarà l’utenza a stabilire se ritiene il dottore in

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L’emozione può farci dimenticare l’inno nazionale?

L’emozione può farci dimenticare l’inno nazionale?


Si possono dimenticare le parole dell’inno nazionale per l’emozione? La scienza ci dice di sì.

Potrebbe essere accaduto l’altra sera al cantante Sergio Sylvestre, durante la sua esibizione prima della finale di Coppa Italia, in diretta su Rai Uno.

Se gliele chiedessimo adesso le parole dell’inno, probabilmente le ricorderebbe: possiamo ricordarci le parole di un testo fino a prima di una performance, ma potremmo non riuscire a ricordarle nel momento in cui ci servono.

In momenti di forte stress vengono rilasciate nel cervello importanti quantità di cortisolo, un ormone il cui eccesso condiziona significativamente la capacità dell’ippocampo di richiamare i ricordi (“Glucocorticoids Decrease Hippocampal and Prefrontal Activation during Declarative Memory Retrieval in Young Men”, 2005).

Questo il motivo per cui a diverse persone capita di prepararsi a memoria un discorso da fare in pubblico, per poi non riuscire a ricordarlo durante la presentazione.

È anche il motivo per cui in situazioni emotivamente attivanti molti cantanti ricorrono ai “prompter”, dispositivi che proiettano il testo della canzone su un grande schermo, in modo da poterlo leggere mentre eseguono il brano.
Non perché non lo sappiano a memoria, ma perché lo stress, quando ci si mette, può fare brutti scherzi.

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Il linguaggio e la leadership di Giuseppe Conte

Il linguaggio e la leadership di Giuseppe Conte

Gli ultimi sondaggi gli danno il 63% di gradimento, eppure la sua coalizione, se si votasse oggi, supererebbe di poco il 40%. La sua comunicazione a tratti è inefficace, fa uso frequente di metafore di difficile decodifica (tra “cabine di regia”, “favore delle tenebre” e “stati generali”), e usa molte negazioni, evocando scenari opposti a quelli che vorrebbe comunicare (“non aumenteremo le tasse”, “non mi sento accerchiato”, “non sono alla ricerca di altre maggioranze”).

Insomma, Giuseppe Conte è l’esempio che il linguaggio conta, ma fino a un certo punto. È la dimostrazione che comunicare attraverso le parole è solo una parte della dinamica del consenso.

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Pensare i nostri discorsi come se fossero eterni

Pensare i nostri discorsi come se fossero eterni

Dobbiamo pensare i nostri discorsi in pubblico come se fossero eterni.

No, non si tratta di megalomania, ma di orientarci ancora una volta a chi ci ascolta.

Ogni volta che un nostro discorso comincia con le parole “in questo momento difficile”, ci stiamo dimenticando che quel contenuto potrebbe essere registrato e rimanere sul web per tanto tempo.

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