Quando il cinema parla di radio. Dieci “radio-movies” raccontati da Silvia Venturi
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non di rado il cinema e la radio sono considerati due mondi contrapposti e inconciliabili: il primo basa tutta la sua forza sulla spettacolarità delle immagini, giovandosi del grande schermo e, soprattutto negli ultimi anni, di nuove tecnologie – come le proiezioni 3D – in grado di rendere ancora più coinvolgente l’esperienza visiva. La seconda, invece, si concentra sulla voce, sulla parola, dovendo far fronte con il racconto all’assenza dell’immagine; un limite, forse. Ma anche una forza, perché ci permette di riappropriarci del piacere di essere noi stessi gli inventori delle immagini da collegare alle parole che ascoltiamo, e non semplicemente gli spettatori passivi di uno scenario già pensato e realizzato per noi. Ma nonostante il loro essere due mondi all’apparenza opposti, radio e cinema hanno in realtà molto in comune, come dimostrano i numerosi film dedicati proprio alla radiofonia.
Un po’ di storia
Il primo punto di contatto fra il cinema e la radio è indubbiamente l’anno di nascita: nel 1895, mentre i fratelli Lumière sconvolgevano gli avventori del Grand Café des Capucines di Parigi proiettando i loro primi cortometraggi, il ventunenne Guglielmo Marconi trasmetteva un segnale in codice morse a circa due chilometri di distanza dalla stazione di emissione. Nello stesso anno, Nikola Tesla riusciva ad inviare segnali morse fra due punti distanti ben 50 km. Non si trattava ancora di vere e proprie trasmissioni radiofoniche – bisognerà aspettare ancora qualche anno per assistere al primo messaggio vocale trasmesso via etere dal canadese Reginald Fessenden – ma già agli albori della Belle Époque facevano la loro prima comparsa due mass media che, insieme, segneranno profondamente la storia del XX secolo. «C’è qualcosa di sottile che unisce radio e cinema, un insieme di coincidenze storiche e di rapporti di forza che nel corso degli anni hanno unito questi due media così diversi, eppure così vicini». È, questa, la tesi che sostiene Silvia Venturi, giornalista e speaker di Radio Rosa, che ha recentemente pubblicato per i tipi di Cinetecnica un interessante libro intitolato Il cinema alla radio.
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Quando il cinema parla di radio
Al centro del testo c’è l’analisi dell’influenza della radio sulla storia del cinema, con l’obiettivo – e non potrebbe essere altrimenti considerando la professione dell’autrice – di riaffermare il giusto equilibrio fra i due mondi, smontando la tesi che sostiene l’assoluta superiorità del cinema sulla radio: «Se la radio fosse davvero “figlia di un dio minore”, come si giustifca la volontà dimostrata da registi del calibro di Woody Allen, Oliver Stone, Robert Altman, di portare sul grande schermo la magia che sempre emana da un segnale in fm?». Non sono poche, in effetti, le pellicole che hanno portato la radio sul grande schermo. L’autrice ne sceglie dieci, e le esamina in maniera approfondita con l’obiettivo di evidenziare quale immagine della radiofonia emerge dalla sua rappresentazione cinematografica. Quello che risulta dallo studio è che la radio è di volta in volta presentata come strumento di potere e di manipolazione delle altrui coscienze; strumento di libertà e di affrancamento dalla censura; strumento per delineare e rafforzare le identità; strumento di connessione/partecipazione del singolo coi propri simili/al mondo esterno; allegoria della vita umana.
Il cinema italiano e l’epopea delle radio libere
Nella categoria di film che rappresentano la radio come strumento di libertà si inseriscono senza dubbio tre dei film italiani citati nel testo, tutti – sia pur in maniera diversa – incentrati sull’epopea delle radio libere degli anni Settanta e sul ruolo sociale che la liberalizzazione dell’etere ha significato per un’Italia in marcia verso la modernità. Le pellicole sono Radiofreccia di Luciano Ligabue, che racconta la nascita di Radio Raptus, un’emittente di fantasia, I cento passi di Marco Tullio Giordana – che racconta invece una storia vera, quella di Radio Aut, fondata da Peppino Impastato – e Lavorare con lentezza di Guido Chiesa, che si concentra sulla storia, anch’essa reale, della bolognese Radio Alice.
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Un cliché inattuale?
Oltre alla precisa classificazione delineata da Silvia Venturi, è però forse possibile identificarne un’altra: quella che vede la radio come strumento di sguardo nostalgico verso il passato. Ne sono esempi Radio Days di Woody Allen e Radio America di Robert Altman, che raccontano i “giorni della radio” come specchio di un’epoca lontana e ormai irrimediabilmente perduta. Una rappresentazione quasi vintage, che sembra relegare la radio nel passato, secondo un cliché che la vede perdere centralità con l’avanzare delle nuove tecnologie dell’immagine e della comunicazione, ma che non rende forse del tutto giustizia a un medium che sa evolversi e svilupparsi insieme alla società, che cerca quotidianamente di rappresentare e di avvicinare con il fascino della parola, custode della storia e della memoria ma anche proiezione verso il futuro e le nuove sfide della modernità.
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